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Le lesioni osteocondrali di caviglia nello sport: inquadramento clinico e soluzioni chirurgiche G.Cerulli,R.Rende,S.Palladini Dipartimento di Ortopedia e Traumatologia,Università degli Studi di Perugia DOI 10.1007/s10261-010-0049-0
ABSTRACT Osteochondral lesions of the ankle in athletes: clinical evaluation and surgery options As now, no randomized controlled clinical trials exist identifying the best treatment of osteochondral lesions. Staging with X-ray and MRI imaging aids in implementing the therapeutic algorithm, increasing the rate of success. Arthroscopic microfracture is the most validated treatment for symptomatic lesions less than 15 mm2 in area, while open surgery with autologous or heterologous osteochondral transplantation is needed for the other lesions.
Introduzione
Eziopatogenesi
La superficie articolare della caviglia, minore rispetto a quella dell’anca o del ginocchio, supporta un carico di 1,5-7 volte il peso corporeo [1] a seconda dell’attività svolta. Per un carico di 500 N, la superficie di contatto dell’articolazione della caviglia è in media di 250 mm2, rispetto ai 1120 mm 2 del ginocchio e ai 1100 mm2 dell’anca [2,3]. Come evidenziato da Simon e coll. nel 1970 [4], le articolazioni ad alta congruenza, di cui la caviglia è la più importante tra le grandi articolazioni, presentano uno spessore cartilagineo notevolmente inferiore (media: 1,2 mm, con range: 0,9-1,6); [5]. Considerato ciò possiamo capire come la caviglia sia esposta a sovraccarichi funzionali o alterazioni patologiche nel momento in cui la biomeccanica delle gestualità sportive non risulta essere adeguata. Le lesioni osteocondrali sono una causa importante di disabilità, soprattutto nel paziente giovane sportivo, poiché possono condizionarne l’attività e la carriera, causando dolore, tumefazione articolare e limitazioni dell’arco di movimento, con non infrequenti blocchi articolari [6]. Questa patologia rappresenta inoltre un fattore predisponente primario all’insorgenza di artrosi precoce dell’articolazione tibiotarsica. La cartilagine articolare della caviglia è costituita per il 75% da acqua, il 15% da fibre collagene, il 5% da condrociti e il 5% da proteoglicani (condroitin solfato/HA e glucosaminoglicani); le terminazioni nervose libere responsabili dell’innervazione nocicettiva sono presenti a livello subcondrale nei canali di Havers, Volkmans e nel periostio, oltre che nella membrana sinoviale. La sintomatologia algica che si scatena in presenza di una lesione condrale è da ricondurre pertanto non alla lesione cartilaginea stessa, ma all’aumento di pressione intra-articolare [7] e intra-ossea che si viene a scatenare come conseguenza dell’alterazione condrale [8,9].
A livello della caviglia le lesioni osteocondrali possono essere il risultato di un trauma distorsivo acuto, di una frattura o di un’instabilità cronica con ripetuti microtraumi. Taga e coll. hanno riportato una incidenza di lesioni condrali del 89% in caso di distorsioni acute di caviglia con lesione dei legamenti laterali, e del 95% in caso di instabilità cronica [10]. Van Dijk e coll. evidenziano artroscopicamente una incidenza del 66% di lesioni condrali dopo una distorsione acuta di caviglia [11], mentre Takao e coll. evidenziano una lesione condrale associata a instabilità cronica nel 56% dei casi e nel 19,4% dei casi sub-acuti [12]. Nel 2008 Aktas e coll. [13] hanno evidenziato, su 86 fratture di caviglia, un’incidenza di lesioni condrali associate del 28%, percentuale simile a quella evidenziata da Sorrento e coll. (38%) [14]. Hintermann e coll. [15] nel 2000 hanno pubblicato uno studio prospettico su un campione di 288 pazienti con fratture di caviglia. Si trattava di 14 fratture Weber tipo A, 198 tipo B, 76 tipo C. Lesioni condrali sono emerse in 228 casi, a carico dell’astragalo nel 69%. Tra le possibili cause da evidenziare nella genesi delle lesioni osteocondrali, più a livello astragalico che tibiale, vi sono i difetti di vascolarizzazione dell’osso subcondrale, dell’arteria del canale del tarso o del ramo deltoideo. Questi, in maniera graduale, portano dall’edema dell’osso spongioso a quadri di rimaneggiamento e riassorbimento, fino a necrosi ossea focalizzata. In queste condizioni la cartilagine sovrastante la zona del difetto osseo, nonostante continui a ricevere il proprio nutrimento dal liquido sinoviale, perde il supporto meccanico, si distacca dal proprio letto parzialmente e poi totalmente e inizia così a migrare nell’articolazione come corpo mobile. La localizzazione sul domo astragalico è da 4 a 14 volte più fre-
quente rispetto al plafond tibiale [16-18], in virtù delle caratteristiche biomeccaniche dell’articolazione e della maggior resistenza della cartilagine tibiale [19]. Le aree più frequentemente lesionate sono la regione posteromediale (56%) e quella anterolaterale (44%) del domo astragalico; in rari casi si possono evidenziare lesioni a specchio esiti di traumi [20-22], mentre sul piano laterale la regione centrale, rispetto a quella anteriore e posteriore, risulta affetta nel 80% rispetto al 25,6% e 14% [23]. La regione mediale inoltre è caratterizzata da un’incidenza di lesioni di maggiori dimensioni e profondità. A livello del plafond tibiale, invece, non è presente una localizzazione predominante nei rari casi descritti in letteratura [24].
lesionato in sede. Per questa ragione gli esami “gold standard” sono la risonanza magnetica nucleare (Fig. 2) e la TC [25]. La RMN permette di delineare accuratamente la dimensione e la localizzazione della lesione, anche in presenza di piccoli foci (Figg. 3,4), e la stabilità del frammento, oltre che la compromissione subcondrale e, a differenza della TC, della superficie artico-
mente distaccato ma non ancora dislocato • Stadio 4: frammento dislocato • Stadio 5: cisti subcondrale. Oggigiorno le classificazioni più
Fig. 2. RMN: lesione osteocondrale astragalica mediale
Fig. 3. RMN: scansione laterale, la lesione evidenziata risulta al passaggio tra il comparto centrale e posteriore dell’astragalo
G. Cerulli
Inquadramento clinico Una causa univoca della lesione non sempre è evidente nell’anamnesi, che comunque deve essere il punto di partenza nell’inquadramento clinico del paziente. Identificare traumi acuti importanti, o più spesso instabilità croniche con ripetuti microtraumi, può agevolare l’iter diagnostico, che si deve sempre completare con un accurato esame obiettivo e uno studio di “imaging”. I pazienti lamentano un dolore profondo al collo piede, più o meno invalidante durante il carico e le attività sportive, con frequenti e recidivanti episodi di tumefazione articolare, conseguenza della sinovite reattiva che segue nella storia naturale della patologia. Le radiografie standard devono essere il primo “step” per evidenziare un frammento osteocondrale distaccato e per escludere patologie concomitanti (Fig. 1). Purtroppo, però, le alterazioni identificate su Rx corrispondono in poco più della metà dei casi a quelle artroscopiche e questo perché la fibrosi, che può essere presente, maschera la rima di frattura e mantiene il frammento
Fig. 1. Rx A-P: lesione osteocondrale del versante antero-mediale astragalico
lare. Inoltre, quando è eseguita a seguito di un trauma acuto, offre anche la possibilità di valutare le strutture legamentose mediali e laterali. Pertanto il corretto iter diagnostico, a nostro avviso, deve prevedere, nel sospetto di lesione osteocondrale, in un paziente con dolore cronico e tumefazione articolare della caviglia, un esame radiografico sotto carico in proiezioni standard. Successivamente raccomandiamo l’utilizzo della RMN per stadiare piccole lesioni senza dislocazione del frammento. In presenza di lesioni più ampie e con dislocazione del frammento, con la TC possiamo ottenere informazioni più definite e precise in termini di localizzazione e dimensioni della lesione [26]. La classificazione delle lesioni osteocondrali è stata meglio riprodotta a livello astragalico che tibiale. La prima proposta è stata quella di Berndt-Harty [27]. Utile al “planning” diagnosticoterapeutico è la classificazione di Bristol, basata sulla risonanza magnetica nucleare [28]: • Stadio 1: lesione isolata della superficie cartilaginea • Stadio 2a: lesione subcondrale con edema circostante (l’edema dell’osso spongioso viene interpretato come potenziale reazione di guarigione) • Stadio 2b: lesione subcondrale senza edema circostante la lesione • Stadio 3: frammento completa-
Fig. 4. RMN: scansione A-P caviglia, piccola lesione del versante laterale astragalico
accreditate sono quelle artroscopiche, che utilizzano come criterio l’aspetto morfologico della lesione. La classificazione di Ferkel e Cheng permette una descrizione accurata non solo della superficie cartilaginea, ma del frammento osteocondrale in toto [29]: • Grado A: la superficie cartilaginea è liscia e intatta, ma soffice alla palpazione • Grado B: la superficie articolare è rugosa • Grado C: la cartilagine presenta fibrillazioni o fissurazioni • Grado D: presenza di un flap cartilagineo o di osso subcondrale esposto • Grado E: frammento osteocondrale libero ma non ancora dislocato • Grado F: frammento osteocondrale libero in articolazione.
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Trattamento Il trattamento di queste alterazioni è a oggi ancora controverso e con risultati anatomo-patologici e clinici non sempre esaltanti a lungo termine [30,31], questo per il modesto potere intrinseco rigenerativo della cartilagine, che non possiede un proprio sistema vascolare, linfatico e nervoso. È importante, dopo aver eseguito gli esami necessari allo “staging” della lesione, potersi avvalere di un algoritmo di trattamento [32] che agevoli le scelte terapeutiche e massimizzi le possibilità di guarigione. In presenza di alterazioni evidenti alla risonanza magnetica, asintomatiche o paucisintomatiche, consigliamo un trattamento conservativo, che preveda l’astensione dall’attività sportiva, esercizi di rinforzo muscolare e mobilizzazione articolare attiva. Se la lesione è sintomatica, ma di dimensioni inferiori a 15 mm2, l’intervento artroscopico risulta essere la soluzione più indicata e validata in letteratura. Dopo aver eseguito l’exeresi del frammento cartilagineo lesionato (Fig. 5) e
Fig.5.Rimozione del frammento osteocondrale
aver effettuato un attento “curettage” del letto della lesione, consigliamo una stimolazione biologica midollare con “drilling” o con la tecnica delle microfratture secondo Steadman. Qualora la lesione superi la dimensione di 15 mm2 il trattamento artroscopico risulta gravato da un aumento della percentuale di insuccesso. In un lavoro del 2009 [33] Lee e coll. hanno evidenziato una percentuale di risultati insoddisfacenti, con la tecnica artroscopica delle microfratture, del 10,5% se la lesione aveva un’area minore di 15 mm2 e circa del 80% se l’area di lesione risultava maggiore di 15 mm2. In quest’ultima condizione, pertanto, si rende necessario un approccio a cielo aperto alla lesione. In questa maniera, ove la tipologia della lesione lo permetta, si può fissare il frammento osteocondrale con un “pin” riassorbibile; quando questo non risulta possibile, dopo aver asportato il frammento osteocondrale e aver preparato il letto della lesione, rimuovendo il tessuto sclerotico e necrotico, è possibile eseguire un trapianto di condrociti eterologo
o autologo [34] o impiantare “device” osteocondrali biomimetici. Il trapianto eterologo di condrociti è praticabile per trattare i grossi difetti osteocondrali, come evidenziato da DeCarbo nel 2010 [35]. Questo Autore ha riportato buoni risultati in 15 casi con lesioni, in media, maggiori di 1,7 cm2, utilizzando per il fissaggio del graft osteocondrale “pin” bioriassorbibili di acido poli-Llattico, che offrono maggior capacità di fissazione e compressione. I vantaggi di questa tecnica consistono nell’eliminazione della morbilità del sito donatore. È possibile inoltre una preparazione accurata del “graft” creando trapianti perfettamente corrispondenti alla lesione, per ristabilire la complessa geometria articolare. Questo fattore, importante quando si trattano i difetti di struttura morfologica irregolare, garantisce oltre che una fonte di condrociti vitali una matrice di ricrescita con una normale architettura [36-39]. Nel trapianto autologo il “graft” viene prelevato da un’altra articolazione, in genere dal ginocchio omolaterale [40], raramente dalla superficie articolare dei malleoli o dall’articolazione tibio-peroneale prossimale [41], e adattato alla zona ricevente leggermente più piccola dell’astragalo [42]. Lee e coll. [43] hanno evidenziato, con questa tecnica, risultati buoni ed eccellenti in tutti i casi eseguiti a 36 mesi dal trattamento; il 72% è ritornato all’attività sportiva, e di questi il 33% al precedente livello. Gautier e coll. [44] riportano su 11 pazienti, a 24 mesi di follow-up, il 100% di risultati buoni ed eccellenti (punteggio medio AOFAS 92), con 82% dei pazienti che è ritornato al livello sportivo precedente la lesione. Hangody e coll. [42], a un follow-up di 50 mesi, riportano risultati buoni o eccellenti nel 94% dei pazienti. Scranton e coll. [45], invece, dopo 36 mesi hanno avuto risultati buoni ed eccellenti in 45 dei 50 pazienti trattati. Nonostante questi risultati incoraggianti, anche questa tecnica presenta problematiche: frequenti sono i casi di alterazioni condrali, degenerazioni cistiche e restringimento dello spazio articolare a livello del sito donatore. Si possono poi venire a creare, nella caviglia, aree di degenerazione cistica nell’osso subcondrale con falde liquide, tessuto fibroso o tessuto cicatriziale adiposo, forse conseguenza dell’assenza di un buon “tide-mark” subcondrale [6]. Nagakawa [46] fu il primo a evidenziare queste caratteristiche sottolineando come probabilmente, nei casi di lesioni croniche, la sclerosi ossea subcondrale possa ridurre significativamente il potenziale di integrazione-rigenerazione osteocondrale. Tra i fattori che dovrebbero gui-
dare nella scelta di questo “graft”, oltre che il “timing” della lesione, dovrebbe rientrare anche l’età del paziente, in quanto oltre i 45 anni [44] risulta esservi un “outcome” meno favorevole, e le dimensioni non dovrebbero essere maggiori di 10 x 20 mm [47]. Un’ulteriore alternativa all’utilizzo di “graft” autologhi o eterologhi è rappresentata da matrici tridimensionali multistrato in grado di riprodurre le caratteristiche dell’unità cartilagine-osso. Costituiti da biomateriali a base di collagene di tipo I di origine equina per la parte cartilaginea e di MgHA e idrossiapatite per la parte ossea subcondrale [48,49], questi “device” si stanno dimostrando efficaci per il trattamento delle lesioni osteocondrali del ginocchio e rappresentano una possibilità per il futuro anche a livello della caviglia [50-52]. L’utilizzo della tecnica delle microfratture secondo Steadman (Figg. 6,7), nonostante a un “second look” artroscopico di 12 mesi presenti, nella casistica di Lee, un 40% di lesioni non completamente guarite, da un punto
Fig. 6. Aspetto artroscopico di lesione a livello astragalico
Fig. 7. Metodica di stimolazione biologica con tecnica delle microfratture
di vista clinico garantisce un risultato buono-eccellente nel 90% dei casi (punteggio medio scheda AOFAS maggiore di 80) [53]. Takao nel 2003 ha evidenziato lo stesso risultato: non sempre un costante miglioramento morfologico alla RMN o a un “second look” artroscopico, ma risultati eccellenti alla valutazione con la scheda AOFAS [54]. Van Dijk e coll. riportano una percentuale di risultati buoni o eccellenti nel 86% dei casi a 4,8 anni di follow-up medio e sottolineano come anche di fronte a un primo trattamento fallito sia pos-
sibile con questa tecnica raggiungere risultati positivi nel 75% dei casi [55]. La tecnica artroscopica delle microfratture per trattare lesioni osteocondrali isolate dell’astragalo è una tecnica sicura ed efficace, che garantisce un buon “outcome” clinico nella maggioranza dei pazienti [56]. Saxena e coll., nel 2007, hanno inoltre evidenziato che in presenza di lesioni al limite, per caratteristiche e dimensione, tra la necessità di un trattamento “open” e artroscopico, le microfratture garantivano la stessa percentuale di successo con un ritorno all’attività sportiva significativamente più veloce [57]. È fondamentale dunque saper identificare quali lesioni possano giovarsi di un trattamento artroscopico identificando i fattori prognostici negativi: “body mass index” maggiore di 25 kg/m2, lesioni di più di 15 mm2, lesioni conseguenti a gravi traumi. Nel 2010 Maffulli e coll. hanno evidenziato che, in presenza di queste caratteristiche, i risultati postoperatori positivi permangono anche a follow-up più lunghi (5 anni) [58]. Tra i trattamenti adiuvanti possiamo includere i campi elettromagnetici pulsanti (CEMP), i quali possono essere sfruttati, dopo un trattamento artroscopico, per promuovere con il loro effetto pulsante “on-off” effetti atermici di soppressione dell’infiammazione (riducendo così anche l’uso di farmaci antinfiammatori non steroidei [59]), promozione di tessuto di guarigione e diminuzione del dolore [60]. In questo caso specifico l’azione a livello dell’osso subcondrale dei campi elettromagnetici risulta ancora più importante di quella a livello cartilagineo, poiché la sintomatologia dolorosa scaturisce proprio dall’osso, ricco di terminazioni nervose. Bassett, negli anni Sessanta, introdusse e migliorò l’uso clinico di questa modalità di trattamento [61,62] che da allora ha trovato sempre più ampi campi di applicazione [63]. Studi in vitro e in vivo hanno dimostrato che i CEMP si comportano come l’adenosina α-2 agonista [64], conducendo a un aumento del fattore di crescita trasformante (“transforming growth factor”) β-1 [65] e migliorando in tal modo il metabolismo osseo e cartilagineo e stimolando la proliferazione condrocitaria [66-70]. Importante a tale riguardo è il lavoro prospettico in doppio cieco, randomizzato, placebo-controllato (RCT), multicentrico, che Van Djik e coll. stanno portando avanti per validare in un gruppo di 68 pazienti sportivi l’efficacia del trattamento con CEMP per il recupero del precedente livello di attività sportiva agonistica [71]. L’approccio riabilitativo deve ga-
rantire dopo il trattamento chirurgico un periodo iniziale per la risposta biologica del tessuto trattato; durante i primi 60 giorni il paziente deve deambulare non caricando sull’arto operato. Al termine di 10-12 settimane il paziente dovrà aver recuperato gradualmente il normale “pattern” del passo, un arco di movimento completo e avere una forza dei gruppi muscolari inferiore di non più del 25% rispetto al controlaterale sano. Durante il mese successivo il paziente sarà avviato verso un regime riabilitativo più intenso, iniziando un leggero jogging e colmando il “gap” di forza muscolare fino almeno al 12% rispetto al controlaterale. Terminata questa fase il paziente potrà iniziare a eseguire gestualità più complesse, finalizzate al recupero completo dopo 30 giorni della forza muscolare e delle gestualità sport-specifiche, avendo cura però di evitare ancora il contatto con l’avversario e l’agonismo. Questo infine sarà consentito in maniera graduale al termine di ulteriori 30 giorni.
Conclusioni A oggi, come sottolineato dalla più recente revisione sistematica Cochrane dell’agosto 2010, non sono presenti in letteratura dati sufficientemente validati da trial clinici randomizzati e controllati da poter garantire quale sia l’intervento “gold standard” per questa insidiosa patologia [72]. Molti però sono i dati che emergono e che mettono in condizione di fare scelte sempre individualizzate e contestualizzate al paziente e alla lesione da trattare. È evidente in letteratura una forte correlazione tra dimensioni della lesione e percentuale di successo del trattamento, di quello artroscopico in particolare. Oltre i 15 mm2 è da considerare inutile una stimolazione biologica con microfratture, ma sarà necessario optare per trattamenti a cielo aperto di cui abbiamo detto sopra, scegliendo il più adatto in base alla patogenesi della lesione, alle sue dimensioni, alla sua localizzazione, al “body mass index”, all’età del paziente e alla sua attività sportiva [73].
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