IL RUOLO DELLE BIBLIOTECHE E LE TRASFORMAZIONI NELLA COMUNICAZIONE SCIENTIFICA
di Giovanni Solimine
Giovanni Solimine Insegna Biblioteconomia presso l’Università di Roma “La Sapienza”. È direttore della Scuola di Specializzazione in Beni Archivistici e Librari e presidente del Sistema Bibliotecario di Ateneo.
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percorsi della comunicazione scientifica stanno subendo profonde trasformazioni, anche – ma non solo – per effetto dell’evoluzione tecnologica. È evidente che la migrazione di una quantità sempre maggiore di pubblicazioni dal formato cartaceo a quello elettronico, la prassi della condivisione in rete dei risultati in progress della ricerca, le esigenze di tempestività ed esaustività nella circolazione di questi risultati, oltre alle conseguenze della crisi economica che, per quanto riguarda l’Italia, si sono accompagnate a un attacco al sistema pubblico dell’istruzione e della ricerca, traducendosi in pluriennali politiche di definanziamento delle Università, hanno radicalmente modificato i comportamenti degli studiosi.
All’interno di questo panorama complessivo, può risultare utile una riflessione sul ruolo esercitato dagli istituti bibliotecari che tradizionalmente hanno avuto il compito di supportare l’attività dei ricercatori, mettendo loro a disposizione fonti e strumenti di lavoro. La società contemporanea manifesta la capacità di produrre e accumulare enormi quantità di conoscenze dando vita talvolta a fenomeni di sovrabbondanza, al punto che si può parlare di information overload [1]. La rete promette di dare tutto a tutti con il minimo sforzo e tende a generare una inebriante sensazione di onnipotenza informazionale. Almeno in apparenza, risulta facile un contatto diretto e non mediato fra la domanda e l’offerta di informazione e di documenti bypassando o ignorando totalmente le
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funzioni di analisi della domanda, selezione dei documenti, validazione dei contenuti, istradamento e orientamento dell’utenza, guida all’accesso, proprie del lavoro di mediazione storicamente esercitato dalle biblioteche. C’è il concreto rischio che si possa immaginare un regime di totale disintermediazione, senza rendersi conto dei rischi che questa modalità di lavoro comporterebbe. L’esperienza quotidiana ci insegna che basta inserire un qualsiasi termine nella maschera di un motore di ricerca per ottenere una spropositata quantità di risultati, anche se non sempre pertinenti. Il fenomeno della sovrabbondanza informativa si manifesta sia sul versante della produzione sia su quello del consumo. Nell’era digitale i documenti sembrano acquistare una grande visibilità e accessibilità e ciò ci induce ad accumulare notevoli quantità di materiali, forse anche al di là delle nostre necessità e senza riuscire sempre a sfruttarli adeguatamente. Siamo immersi in un sistema documentario complesso che deve il suo ritmo di crescita anche alla facilità con cui le tecnologie consentono oggi di pubblicare, e cioè rendere pubblico e accessibile ciò che viene prodotto. Gli sviluppi dell’editoria elettronica e le nuove frontiere del self-publishing non fanno che rendere ancora più evidente questa prospettiva. Inutile precisare che qualsiasi ampliamento del perimetro in cui la conoscenza si diffonde è da considerare positivo ma questa situazione non è priva di pericoli, e
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Nell’era del “fai-da-te” e della comunicazione globale, la funzione di alcune figure di mediatori dei documenti e dei contenuti in essi registrati – l’editore, il libraio, il bibliotecario e, per certi versi, anche alcune figure di formatori come gli insegnanti – va incontro a un appannamento fino al suo pressoché totale disconoscimento.
non soltanto perché il sovradimensionamento della quantità può essere a detrimento della qualità. Ciò che maggiormente deve preoccuparci è il danno che può derivare dalla banale facilità con cui la documentazione circola e quindi dal rischio che venga meno un accurato lavoro di selezione, contestualizzazione, validazione e filtraggio nei diversi momenti della mediazione informativa e documentaria. Nell’era del “fai-da-te” e della comunicazione globale, la funzione di alcune figure di mediatori dei documenti e dei contenuti in essi registrati – l’editore, il libraio, il bibliotecario e, per certi versi, anche alcune figure di formatori come gli insegnanti – va incontro a un appannamento fino al suo pressoché totale disconoscimento. E ciò accade anche quando le funzioni sono presidiate ed esercitate: penso, ad esempio, al modo in cui l’utenza universitaria accede alle risorse di editoria elettronica.
BIBLIOTECA MONTEVERDI (FACOLTÀ DI LETTERE, UNIVERSITÀ DI ROMA “LA SAPIENZA”)
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Per il semplice fatto che non c’è bisogno di recarsi fisicamente in biblioteca e che a queste risorse si può accedere dal proprio studio o laboratorio, oppure per il fatto che i sistemi di ricerca ci rinviino direttamente al sito di una rivista o di un editore, diviene totalmente invisibile – specie agli occhi di chi coltiva le scienze dure – il lavoro effettuato dalle biblioteche e in un certo senso perfino l’ingente impegno finanziario che gli Atenei sostengono per rendere fruibili queste risorse. Si sta producendo anche una pericolosa tendenza alla semplificazione: la gran parte degli utilizzatori dei motori di ricerca adotta strategie molto elementari, fondate su pochissime parole chiave, e tende ad arrestarsi di fronte ai primi risultati recuperati senza che ne vengano valutate la pertinenza, la rilevanza e l’attendibilità, e quindi senza che si possa produrre un’appropriazione critica e consapevole dei contenuti.
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Interventi Preoccupa che questa auto-limitazione delle possibilità di ricerca, come effetto collaterale dell’evoluzione tecnologica, stia diffondendosi non solo tra i navigatori “comuni” ma anche tra gli studenti e a volte perfino tra i ricercatori, come dimostrano alcune indagini [2]. A ciò debbono aggiungersi le trasformazioni, che potremmo definire quasi di natura antropologica, riguardanti la sfera del pensiero e delle attitudini personali: la ricezione dei contenuti registrati su supporti digitali è diversa da quella legata alle forme canoniche di lettura, studio e apprendimento. Una lettura multilineare, spesso contaminata con altre attività (multitasking), e condotta spostandosi continuamente da un medium a un altro, da un canale a un altro, utilizzando linguaggi diversi, genera un sovraccarico cognitivo [3]. Vengono sollecitate aree cognitive diverse rispetto al passato e si sviluppano nuove attitudini e abilità, mentre altre si affievoliscono fino ad essere perdute [4]. Nell’universo analogico, la linearità del testo scritto richiedeva tempo per la concentrazione e la riflessione mentre nella realtà digitale si impara a “leggere senza leggere”, scorrendo i testi quasi inconsapevolmente, alternando fasi di attenzione ad altre di completa disattenzione, subendo a volte in modo passivo e senza partecipazione il percorso dei link ipertestuali. La capacità di leggere e comprendere un testo argomentativo diviene più istintiva che cognitiva ma dalla realtà virtuale si apprende in modo diverso, assimilando abilità per tentativi più che attraverso un apprendimento teorico che precede l’azione. Sta saltando anche la canonica distinzione tra le diverse forme di organizzazione sociale del sapere che il sociologo Guido Martinotti definì in modo molto efficace parecchi anni fa [5], parlando di sapere organizzato, sapere organizzativo e sapere diffuso. Con l’espressione sapere organizzato o colto Martinotti parlava del
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sapere collegato alle istituzioni scientifiche, sistematicamente organizzato, prodotto e trasmesso da studiosi ed esperti, naturalmente destinato ad essere conservato e rielaborato attraverso un costante lavoro di progressivo accrescimento delle conoscenze. Di nostro, potremmo aggiungere a questa definizione una distinzione interna fra scienze dure e scienze umane e sociali che implica un diverso metodo di studio e un differente rapporto con le fonti documentarie: nel primo caso, l’avanzamento della ricerca procede con il superamento delle ricerche precedenti mentre in ambito umanistico la ricerca procede per progressiva accumulazione e approfondimento. Su questa forma del sapere, che in questa sede ci interessa più da vicino, si tornerà fra breve. Un’altra forma è quella che può essere definita come organizzativa (o burocratica, nel senso weberiano del termine) e che comprende le conoscenze che si accumulano all’interno delle grandi organizzazioni formali, siano esse amministrazioni pubbliche o imprese, e che caratterizzano l’epoca in cui viviamo. Questo sapere, per descrivere il quale spesso si utilizza l’espressione in lingua inglese know how, è costituito da “complessi documenti normativi, estese memorie scritte del comportamento delle organizzazioni, dati minuti ed esaustivi sulle caratteristiche e la dinamica di tutte queste istituzioni, degli uomini che ne fanno parte e dell’ambiente in cui operano” [6]. Trattandosi di un sapere in costante evoluzione e fortemente legato alle esperienze individuali e collettive, con una funzione eminentemente pratica e applicativa, esso non necessariamente viene veicolato in forma scritta. Ma anche in questo caso la rete è divenuta una importante sede in cui esso si accumula e viene fruito: mi riferisco in particolare a quei circuiti riservati a comunità professionali o di interessi abbastanza ben definiti. La terza
e ultima tipologia di sapere di cui parlava Martinotti è un sapere diffuso, alla cui produzione, accumulazione e diffusione concorrono una pluralità di soggetti. Su questa base si formano le conoscenze collettive legate agli eventi della vita quotidiana e le opinioni, gli usi, i costumi di milioni di persone. I giornali prima e la televisione poi sono stati in passato i principali strumenti di trasmissione – la scuola di base, potremmo dire – per formare questo amalgama del tessuto sociale; anche in questo caso la rete, a maggior ragione con la capillare diffusione dei dispositivi mobili, si candida ad essere il principale formatore collettivo della nostra epoca.
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La capacità di leggere e comprendere un testo argomentativo diviene più istintiva che cognitiva ma dalla realtà virtuale si apprende in modo diverso, assimilando abilità per tentativi più che attraverso un apprendimento teorico che precede l’azione.
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Fino a non molto tempo fa avremmo potuto collegare inequivocabilmente queste tre diverse forme del sapere ad altrettanti generi editoriali (la saggistica e le pubblicazioni accademiche nel primo caso, le pubblicazioni professionali e la grey literature nel secondo, i quotidiani e la stampa periodica e di divulgazione nel terzo), oppure a tre differenti tipologie di istituzioni deputate alla conservazione e alla diffusione dei prodotti culturali che veicolano queste differenti forme di sapere (rispettivamente le biblioteche di ri-
Interventi cerca, i centri di documentazione e le biblioteche pubbliche di base). I mezzi di comunicazione di massa e la rete hanno scardinato questo schema di riferimento così ben delineato e, in alcuni casi, reso anche meno facilmente intellegibili le cesure che separavano l’uno dall’altro questi tre mondi del sapere. La minore formalizzazione dei canali di comunicazione e di queste distinzioni funzionali si manifesta in vario modo. Esistono, ad esempio, strumenti come le liste di discussione, e per certi versi perfino i blog, che operano in ciascuno dei tre ambienti e che talvolta tendono a sconfinare rispetto alle loro finalità principali e che assolvono contemporaneamente a più di una funzione. Anche l’integrazione di linguaggi e formati e la possibilità di combinare testi e immagini (comprese le immagini in movimento e tridimensionali) va in questa direzione. Altri esempi ancora potrebbero essere citati. Accanto alla scholarly communication, cioè alla comunicazione tecnico-scientifica che utilizza un linguaggio specialistico e che è indirizzata a una ristretta comunità di ricercatori, è divenuto più facile affiancare forme di una comunicazione più accessibile che può rivolgersi a una collettività più ampia senza rinunciare alla qualità e al rigore. Per un pubblico ancora più vasto e generalizzato sono disponibili alcune sedi, quali i canali della tv satellitare specializzati nella divulgazione e le aggregazioni che si formano attorno ai social network e ad altri strumenti tipici del web 2.0, che hanno ulteriormente diversificato e mescolato i tradizionali mezzi di comunicazione attraverso i quali viaggiano i contenuti. In ogni caso, proprio per il crescere dei flussi comunicativi e per la presunta facilità con cui vi si può accedere, servono competenze critiche e capacità di lettura per poter pienamente sfruttare le potenzialità di questa grande quantità di contenu-
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Per quanto la situazione sia in rapida evoluzione, nel 2011 solo un quarto delle nostre Università aveva attivato progetti formalizzati in questo campo e li portava avanti con continuità e sistematicità.
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ti. A questo scopo è necessario “acquisire modelli, motivazioni e capacità per guidare, anche autonomamente, un processo di ininterrotto aggiornamento e sviluppo delle proprie conoscenze, tale da favorire le possibilità di autonomo controllo e progettazione d’intervento rispetto al contesto di vita e di lavoro individuale” [7]. Per tutte queste ragioni, ritengo fondamentale che venga seriamente affrontata la questione della information literacy, vale a dire la capacità di recuperare l’informazione attuando strategie di ricerca efficaci, selezionare e valutare l’informazione recuperata, organizzare e rielaborare i contenuti, saper presentare e comunicare i risultati del proprio lavoro [8]. E forse è proprio in questo specifico campo di attività che possiamo individuare un ampliamento della concezione del ruolo di mediazione cui si accennava in precedenza a proposito delle biblioteche. La funzione formativa delle biblioteche vale per tutte le tipologie con le quali solitamente etichettiamo questi istituti, ma in primo luogo per quelle che operano all’interno delle istituzioni scolastiche e universitarie. Possiamo dire che una biblioteca scolastica o universitaria efficace si misura per il contributo che riesce a dare all’istituzione di appartenenza nel raggiungimento delle sue finalità. La biblioteca, infatti, non è soltanto un servizio di supporto all’attività didattica e di ricerca, con una funzione mera-
mente ancillare, ma una delle componenti del processo formativo che in questi istituti si compie, un laboratorio nel quale si impara a imparare, si lavora a contatto con le fonti, si utilizzano contemporaneamente strumenti primari e strumenti secondari, strumenti specialistici e strumenti di corredo e di riferimento più generale. Venendo nello specifico alla situazione di casa nostra, bisogna constatare che purtroppo non disponiamo di dati aggiornati che ci descrivano in modo certo e affidabile lo stato di salute delle biblioteche universitarie italiane [9] da questo punto di vista e il loro impegno nella formazione degli utenti. Per quanto la situazione sia in rapida evoluzione [10], nel 2011 solo un quarto delle nostre Università aveva attivato progetti formalizzati in questo campo e li portava avanti con continuità e sistematicità [11]. Un recente documento, elaborato dalla Commissione Nazionale Università e Ricerca dell’Associazione Italiana Biblioteche (AIB), prova a ridefinire il ruolo delle biblioteche universitarie e di ricerca “quali infrastrutture basilari per la creazione, disseminazione e conservazione della ricerca scientifica e per la costruzione di servizi a sostegno e valorizzazione dell’attività didattica” [12]. Si tratta di un documento di alto profilo che esprime una visione organica e avanzata sulle funzioni che i servizi bibliotecari potrebbero e dovrebbero esercitare all’interno delle Università e che probabilmente ha il solo limite di risultare piuttosto lontano dall’assetto attuale, caratterizzato da una certa marginalizzazione rispetto alle dinamiche della vita accademica e da una forte inadeguatezza di risorse finanziarie, umane e strumentali. Per le biblioteche operanti nel settore universitario e della ricerca scientifica, l’AIB individua alcune aree di intervento allo scopo di realizzare una strategia di sviluppo della conoscenza e dell’informazione raziona-
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Interventi le ed economicamente sostenibile. Tali linee di attività possono essere così sintetizzate: • una rinnovata organizzazione strutturale e amministrativa; • l’ampliamento delle funzioni correnti delle biblioteche; • l’assunzione di ruoli di coordinamento e di supporto nelle seguenti aree di sviluppo: a) condivisione delle conoscenze; b) diffusione dell’accesso aperto; c) valutazione della ricerca; d) educazione e formazione degli utenti; • il riconoscimento di nuovi ruoli e competenze e l’individuazione di percorsi formativi per le professioni bibliotecarie e della mediazione informativa. In una congiuntura che sembra orientata allo sfruttamento commerciale dell’informazione e alla privatizzazione delle fonti e dei canali di trasmissione delle conoscenze, e che si caratterizza per l’affermazione di nuovi modelli editoriali e di logiche economiche d’integrazione verticale e di concentrazione in ristretti oligopoli del sapere, le biblioteche universitarie e di ricerca ribadiscono la loro natura di servizio pubblico aperto all’uso di molteplici comunità di utenti. Ma le trasformazioni in atto sono profonde e nuovi soggetti, si pensi a imprese del calibro di Google e di Amazon, stanno cercando di occupare funzioni di produzione e di mediazione lungo la catena della comunicazione editoriale scientifica. Quindi, accanto ai ruoli tradizionali, per le biblioteche e le istituzioni scientifiche si delinea una nuova mission, come i servizi della biblioteca digitale o lo sviluppo dei modelli Open Access di disseminazione della conoscenza. Notevoli sono, quindi, le opportunità per le biblioteche che si orientino verso la produzione, il trattamento e la condivisione di contenuti e saperi liberi, non condizionati da esigenze di carattere commerciale.
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Interventi L’auspicio, formulato nel documento che qui si sta sintetizzando ma avanzato da più parti, è che le biblioteche delle Università e degli enti di ricerca siano sempre più coinvolte nella realizzazione dei progetti Open Access: un movimento nato anche come reazione alla lievitazione dei costi delle pubblicazioni scientifiche, divenuti insostenibili (nell’arco di un ventennio, la crescita del prezzo dei periodici è stata pari a sei o sette volte il tasso di inflazione), ma che trova il suo principio ispiratore nel fine istituzionale delle biblioteche di offrire un accesso ampio e democratico alla conoscenza. Per inciso, segnalo che nei mesi scorsi si è cercato di introdurre una novità di grande rilievo per il nostro Paese. L'art. 4 del DL Cultura [13] varato dal Governo Letta prevedeva che le pubblicazioni che documentano i risultati delle ricerche finanziate per almeno il 50% con fondi pubblici dovessero essere rese disponibili entro sei mesi in archivi istituzionali ad accesso aperto. In sede di conversione in legge sono stati introdotti alcuni emendamenti che di fatto svuotano la proposta. Il risultato è la L. 112/2013: la limitazione dell'obbligo della pubblicazione in accesso aperto ai soli periodici e l'allungamento del periodo di embargo da 6 a 18 mesi per l'area scientifico-tecnologica e a 24 mesi per le scienze umane e sociali riducono di molto la portata del provvedimento. Come molti temevano, le lobby editoriali hanno finito col prevalere. Tornando ai temi dell’information literacy e della formazione dell’utenza, cui già si è fatto cenno in precedenza, nel suo documento l’AIB ricorda che le capacità di analisi e interpretazione non ci creano spontaneamente tra gli utenti ma sono il risultato di percorsi specifici strettamente collegati alle categorie documentali disciplinari e alle distinte pratiche delle comunità di ricerca. Nelle “raccomandazioni” che accompagnano il documento si
legge che è indispensabile che le Università e le loro biblioteche si dotino di programmi di educazione e formazione dell’utenza e si propone che, in collaborazione con le comunità dei docenti, le biblioteche possano integrare i contenuti dei percorsi curricolari con ore di lezione riconosciute da crediti formativi dedicate all’utilizzo della biblioteca fisica, digitale ed agli strumenti
avanzati di ricerca e disseminazione dell’informazione. In conclusione, possiamo dire che non è possibile ridefinire il ruolo delle biblioteche universitarie e ipotizzare un loro posizionamento più incisivo nelle attività di ricerca senza effettuare una riflessione organica sulle trasformazioni in atto nella comunicazione scientifica nell’apprendimento.
Note [1] Cfr. Salarelli A., “Le patologie da eccesso di informazione: l’«information overload»”, in Id., Bit-à-brac. Informazione e biblioteche nell’era digitale, Diabasis, Reggio Emilia, 2004, pp. 43-63. [2] Cfr. Metitieri F., Il grande inganno del Web 2.0, Laterza, Roma-Bari, 2009, pp. 3-6. [3] Si vedano le interessanti considerazioni proposte in Mauri C., Leggere in digitale, AIB, Roma, 2012 e in Ferri P., La scuola digitale. Come le nuove tecnologie cambiano la formazione, Bruno Mondadori, Milano, 2008. [4] Oltre ai contributi citati nella nota precedente, si vedano in proposito Roncaglia G., “Leggere in formato digitale”, in Le teche della lettura, a cura di Claudio Gamba – Maria Laura Trapletti, Editrice Bibliografica, Milano, 2006, pp. 82-90; Mussinelli C., “Cultura e intrattenimento nel mondo digitale. Una ricerca dell’Osservatorio sui contenuti digitali dell’AIE”, Libri e riviste d’Italia, 5 n.s. (2009), n. 1-5, pp. 49-65; Levy R., “You have to understand words…but not read them: young children becoming readers in a digital age”, Journal of research in reading, 32 (2009), n. 1, p. 75-91; Ferri P., La scuola digitale, cit.; Wolf M., Proust e il calamaro. Storia e scienza del cervello che legge, Vita e Pensiero, Milano, 2009; Casati R., Contro il colonialismo digitale, Laterza, Roma-Bari, 2013. [5] Martinotti G., Informazione e sapere, Anabasi, Milano, 1992, p. 145-162. [6] Ivi, p. 146. [7] Ferri P. – Marinelli A., “New media literacy e processi di apprendimento”, Introduzione a Henry Jenkins et al., Culture partecipative e competenze digitali. Media education per il XXI secolo, Guerini e associati, Milano, 2010, p. 14. [8] Si vedano in proposito le linee guida elaborate dall’ALA (American Library Association) e tradotte in italiano dalla Commissione nazionale Università e Ricerca dell’AIB (Associazione Italiana Biblioteche): cfr. http://www.aib.it/aib/commiss/cnur/tracrl.htm3. Le definizioni e le sintesi prodotte dall’ALA vengono assunte quasi fedelmente dal documento curato dall’IFLA (International Federation of Library Associations and Institutions) nel 2006, Guidelines on information literacy for lifelong learning, http: //www.ifla.org/org/VII/s42/pub/IL-Guidelines 2006.pdf. [9] Il dato più recente è del 2010 ed è ricavato dalla rilevazione che il Gruppo interuniversitario di monitoraggio svolge da alcuni anni, da cui risulta che solo il 2,2% degli studenti (nel 2006 era l’1,16%) ha seguito corsi di formazione sull’uso delle risorse organizzati dalle biblioteche e che soltanto in due Atenei, ma molto particolari, come la Scuola Sant’Anna di Pisa e la Libera Università di Bolzano, tutti gli studenti vengono raggiunti da questa attività formativa. Cfr. http://www.gimsba.it. [10] Anche nella letteratura professionale italiana si registra un crescente interesse per questi temi. Cito solo il più organico lavoro sull’argomento: Ballestra L., Information literacy in biblioteca, Editrice Bibliografica, Milano, 2011. [11] Renditiso A., “L’information literacy nelle biblioteche universitarie italiane: i risultati di un’indagine comparati con le modalità di comunicazione del servizio sul Web”, Bollettino AIB, 51 (2011), n. 3, p. 213-226. [12] http://www.aib.it/struttura/commissioni-e-gruppi/2013/36257-rilanciare-lebiblioteche-universitarie-e-di-ricerca-italiane/. [13] Decreto Legge 8 agosto 2013, n. 91 “Disposizioni urgenti per la tutela, la valorizzazione e il rilancio dei beni e delle attività culturali e del turismo”, pubblicato sulla G.U. Serie Generale n.186 del 9 agosto 2013.
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